Giovanni Cucci - Scrittore de "La Civiltà Cattolica"
Ma emerge soprattutto una situazione di isolamento. Il 54% dei preti è solo, anche se può avere qualche aiuto per la casa o la chiesa. Il 20% manifesta sintomi depressivi, contro il 15% tra coloro che vivono in una comunità sacerdotale. Il 9% ha una depressione moderata, e il 3% da moderatamente severa a severa; il che significa un numero di 240 preti. Nei 2/3 dei casi i presbiteri affermano di partecipare a gruppi di sostegno e di farsi accompagnare dal punto di vista spirituale. Forte è l’aiuto percepito da parte di amici e parenti, un po’ meno da parte della gerarchia.
Alla domanda generale su come si sentono, la stragrande maggioranza risponde «bene» o «abbastanza bene» (93,3%), eppure il 40% avverte un basso grado di realizzazione personale e malessere rispetto alla gerarchia ecclesiastica, spesso per problemi di tipo gestionale; due preti su cinque hanno problemi di alcolismo e l’8% è dipendente. Tuttavia, ciò che più preoccupa i vescovi è che il 2% dei loro preti soffre gravemente di burnout: il 7% avverte «affaticamento in forma elevata» e il 76% debolmente; solo il 15% ne sembra esente.
E l’Italia?
Anche nel nostro Paese sono stati compiuti studi sul disagio tra i preti. Una ricerca condotta nel 2005 a Padova (una delle diocesi dove i preti sono più numerosi, 806 al momento della ricerca) mostra risultati molto simili a quanto rilevato in Francia[6].
Dalle interviste emergono 2 gruppi numerosi (124 preti ciascuno) antitetici: per il primo gruppo «va tutto bene», mentre il secondo si sente «bruciato», con alti livelli di depressione, mancanza di coinvolgimento e bassa realizzazione personale. Ci sono altre categorie, meno numerose ma che avvertono una situazione abbastanza simile a quella dei «bruciati».
La coabitazione con altri preti non sembra influire sulla situazione. Sia il gruppo di preti soddisfatti sia gran parte di quelli scontenti (58%) vivono soli, e vive con altri sacerdoti gran parte di coloro che hanno un ritmo pastorale intenso, ma sperimentato con sofferenza. Per quanto riguarda l’età, le fasce più a rischio sono quelle dei più giovani (meno di 30 anni) e dei più anziani (oltre i 70 anni); per i primi gioca forse la scarsa esperienza e un’affettività fragile; per i secondi la difficoltà a invecchiare, a lasciare incarichi e ruoli che in qualche modo conferivano loro una identità sacerdotale.
Un grado di istruzione superiore – dottorato, vita universitaria – sembra fornire una maggiore protezione nei confronti delle problematiche della vita, incrementa gli interessi e la curiosità di conoscere. Il senso di realizzazione personale caratterizza soprattutto coloro che esercitano un ministero incentrato sull’aiuto e sull’ascolto, come i cappellani di ospedali, i confessori e gli assistenti di seminario.
Alcune possibili cause
Gli autori della ricerca hanno cercato di comprendere le cause del malessere dei preti intervistati. Tra esse emerge soprattutto il burnout, anche se gran parte di loro non ha usato questo termine e spesso neppure lo conosce; si rilevano piuttosto delle precise cause esterne (molteplicità degli impegni, complessità delle problematiche, la sensazione di essere dei «funzionari del sacro», che erogano servizi asettici a fedeli indifferenti)[7].
Altri lamentano la scarsa cura della vita interiore e un conseguente vuoto affettivo, che porta a considerare il celibato come un peso. La formazione ricevuta è un’altra causa di burnout: si è insistito in modo esasperato sull’aiuto ad altri e sul dono di sé, a scapito della cura personale e del creare un clima di comunione e amicizia nel seminario e in seguito con i presbiteri.
Una ricerca più recente, condotta da Alessandro Castegnaro, presidente dell’Osservatorio socio-religioso del Triveneto (Osret) arriva alle medesime conclusioni:
- Un crescente senso di inadeguatezza ad affrontare le problematiche odierne, per la mancanza di preparazione e soprattutto di tutela giuridica e personale (come la possibilità di confrontarsi con un supervisore). Più che al tempo dedicato al ministero, la causa del disagio è in buona parte legata alla crescente burocratizzazione: al numero dei fronti da gestire si aggiunge la loro complessità. Il prete si trova di fronte a compiti per i quali non è stato preparato; da lui si richiedono competenze amministrative e giuridiche che non possiede. Tutto ciò alla fine lo rende più simile a un cattivo manager che a un buon pastore. Un parroco ha sintetizzato così la sua situazione: «Anche i padri di famiglia si devono occupare della caldaia; io ne ho sette!». Si tratta di un disagio destinato a crescere, perché spesso i preti hanno diverse parrocchie da amministrare, senza risiedere in nessuna di esse, e ai compiti amministrativi si aggiungono le responsabilità canoniche, civili e penali. Da qui la difficoltà ad affidare ad altri tali mansioni: «Delegare funzioni senza delegare responsabilità è poco praticabile […]. Di particolare rilievo sono gli effetti che tutto questo induce sull’offerta liturgica, e non solo nei casi in cui il prete è ormai ridotto a vivere una sorta di rally eucaristico a ogni festa. I preti stessi riconoscono una scarsa capacità di comunicazione e ne soffrono»[8].
- Il burnout è una delle conseguenze principali, che per il prete, rispetto alle altre professioni, ha come caratteristica peculiare la «spersonalizzazione», cioè la tendenza a vivere i rapporti con le persone senza partecipazione emotiva, in modo burocratico e ripetitivo: un vulnus terribile che va a minare profondamente la sua idealità, da sempre associata (e riconosciuta) alla sua «umanità».
- La solitudine, specie tra i più giovani, legata al senso di spersonalizzazione. Si tratta infatti non tanto di una solitudine sociale o familiare, ma «ministeriale, ecclesiale», povera cioè di relazioni, soprattutto con i fedeli, accentuata dal fatto che non si è mai vissuta una fraternità presbiterale: «Il presbiterio in particolare, al di là di una patina superficiale di cameratismo, non sembra essere un ambiente capace di attivare relazioni umanamente ricche. Emerge dunque un problema che investe direttamente i rapporti umani nella Chiesa […]. Il presbiterio non fa squadra, l’io prevale sul noi. Mancano funzioni di supervisione pastorale e mancano occasioni per sviluppare un lavoro di laboratorio pastorale, che permetta un confronto con le esperienze vissute dai confratelli. E così ognuno resta da solo con i propri problemi»[9].
Questa situazione innesca un pericoloso circolo vizioso: il burnout accentua la negativa percezione di sé da parte del prete e rende sempre meno attraente per un giovane tale scelta di vita; la diminuzione delle vocazioni a sua volta costringe il prete a un carico di lavoro sempre più pesante, che rischia di sommergerlo. Il suo primo pensiero diventa come sopravvivere a tutto ciò, selezionando i fronti, lasciandone alcuni disattesi o vivendo una perenne situazione di emergenza.
Soli per scelta?
Le ricerche precisano che quasi mai la sindrome arriva all’improvviso. Eppure, pur avendo bisogno di aiuto, buona parte dei preti sembra restia a chiederlo e a riceverlo, convincendosi che deve darsi da sé la soluzione al proprio malessere.
Gli intervistati rilevano in particolare di non aver mai coltivato una vera amicizia fraterna con altri presbiteri[10]; altri preferiscono essere soli piuttosto che in compagnia di altri preti[11], soprattutto per il timore di sentirsi giudicati[12]. La solitudine diventa così una forma di tutela della propria intimità.
C’è da chiedersi se a questa situazione possa contribuire anche una certa modalità formativa, che porta a pensare il ministero presbiterale come un’avventura da condurre in solitaria. Il sacerdote diocesano è solitamente pensato per vivere da solo: la vita comune è propria degli anni di seminario. Da qui la tendenza a viverli come una parentesi artificiale, molto diversa dalla vita «vera» che lo attenderà dopo l’ordinazione, e quindi a considerare gli altri seminaristi come compagni di un viaggio momentaneo da cui si separerà una volta giunto a destinazione.
Un rettore di seminario, Enrico Brancozzi, nella sua ricerca riconosce tale tendenza compendiata dall’espressione significativa, e di uso comune, «farsi prete», una sorta di autocandidatura che la Chiesa è chiamata certamente a valutare, ma che rischia di separare dalla comunità cristiana, portando a quella solitudine ministeriale che è alla base del disagio rilevato dalle ricerche[13].
Mons. Erio Castellucci, vicepresidente per l’Italia settentrionale della Conferenza episcopale italiana, presentando lo studio di don Enrico Brancozzi, nota altre motivazioni che possono portare il prete a presentarsi come un «io» e non un «noi» ecclesiale. Tra queste rileva soprattutto la visione sacrale del presbitero, più che di peccatore perdonato – si potrebbe aggiungere –, chiamato indegnamente a questo grande dono, e bisognoso perciò più di altri del sostegno della comunità: «Per quanto già il Vaticano II – rilanciando il sacerdozio battesimale – avesse già lasciato da parte le categorie del presbitero mediator Dei et hominum o del sacerdos alter Christus, non sono mancati nel periodo successivo al concilio, e non mancano tuttora, recuperi di questa visione sacrale»[14].
Tutto ciò non consente di esprimere la verità di uomo del futuro presbitero, la sua affettività, la fragilità, le ferite del passato, le paure del ministero, soprattutto il desiderio di instaurare amicizie con i propri compagni di cammino.
Un problema strutturale?
Rimane quindi l’interrogativo se l’istituzione possa in qualche modo incoraggiare questa tendenza, anche se involontariamente. In tal caso il disagio del prete dovrebbe essere considerato un problema non semplicemente personale, ma strutturale, che richiede cambiamenti strutturali[15].
Questo è un insegnamento che giunge anche dalle scienze umane. Le conseguenze di un trauma dipendono in gran parte da come la persona lo legge, dai suoi punti di riferimento, e soprattutto se essa si trovi sola a farlo o se abbia qualcuno accanto a sé in grado di aiutarla.
Sentirsi parte di una comunità costituisce una delle sue principali forme di protezione: «I fattori culturali, e in particolare il sistema di significato predominante, hanno un’influenza cruciale sul modo in cui si affronta la sofferenza […]. Il trauma psicologico è diverso dal trauma fisico: gli individui non registrano passivamente l’impatto di una forza esterna, ma si impegnano in modo attivo, cercando una soluzione». Risulta invece molto più dannosa per la salute una vita solitaria iperprotetta, ma priva di legami forti e profondi[16].
Se ne sono accorte molte ditte e multinazionali, che hanno da tempo avviato iniziative volte a far fronte al disagio dei propri dipendenti, culminato in burnout, depressioni e suicidi: hanno in altre parole compreso la profonda unità tra qualità della vita, serenità personale e qualità del lavoro[17].
Affrontare il problema anche in sede ecclesiale è doveroso, non solo perché lo richiede la carità evangelica, ma anche per la ragione stessa della scelta intrapresa, chiamata ad annunciare con la vita un messaggio di salvezza.
Alcune proposte
Senza nulla togliere a coloro che vivono con soddisfazione e gusto il proprio ministero, una particolare attenzione deve essere rivolta a coloro che vivono in situazione di disagio e non sembrano trovare vie d’uscita. San Paolo ricorda che «se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme» (1 Cor 12,26). La fraternità non è una formula per gestire le emergenze, una cura per il disagio, ma la modalità ordinaria con la quale si è chiamati a rispondere alla chiamata del Signore.
Parlare di cambiamenti strutturali non significa comunque escludere la libertà e responsabilità di ciascuno. I documenti del magistero insistono giustamente sul fatto che il primo responsabile della formazione è il candidato stesso. A maggior ragione questo vale per il presbitero[18]. Pur stimolando la necessità di notare la sofferenza di chi è vicino, rimane sempre il fatto che si tratta di persone adulte, chiamate oltretutto a diventare responsabili del bene di altri.
Venendo ad alcune proposte, la Conferenza episcopale francese, dopo aver esaminato i risultati dell’indagine, ha ipotizzato possibili piste di intervento e soprattutto di prevenzione: contrastare la solitudine dei preti puntando sulla qualità dell’alloggio; la creazione in ciascuna diocesi di un polo per aiutare a vivere in modo salutare il ministero (un centro socio-sanitario per sacerdoti in attività), dove vi siano anche persone competenti per affrontare le questioni economiche, giuridiche e amministrative; l’istituzione della figura di supervisori pastorali e mediatori a cui i preti possano rivolgersi in caso di difficoltà.
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Anche il Comunicato finale della 69a Assemblea generale della Cei, del 2016, parlando della fraternità sacerdotale, aveva raccomandato l’importanza di «facilitatori» delle relazioni e della comunione[19]. Sarebbe importante verificare quale seguito e attuazione abbia avuto tale invito nelle varie diocesi.
Un esempio interessante di cambiamento strutturale è quello recentemente avviato da mons. Delpini circa la riconfigurazione della vita comunitaria dei seminaristi della diocesi di Milano: essa prevede un tempo prolungato in una parrocchia, insieme ad altri seminaristi (da tre a cinque), e con la presenza di famiglie[20]. Lo scopo è favorire la fraternità, il confronto con altre vocazioni, la dimensione domestica, in particolare la presenza di figure femminili nella formazione, una cosa raccomandata già dalla Pastores dabo vobis e ribadita dalla nuova ratio.
Nei casi più difficili, si può pensare a un periodo di stacco da trascorrere in un contesto più protetto, mantenendo sempre la possibilità di interfacciarsi con i responsabili della diocesi, in modo da non lasciare il prete semplicemente affidato ad altri[21].
A livello di formazione permanente
L’indagine sui seminari condotta da Luca Bressan mostra come essi siano diventati sempre meno una preparazione al presbiterato, ma piuttosto un lungo momento di verifica vocazionale, e non di rado dello stesso cammino di fede; i problemi e i compiti del ministero vengono in tal modo delegati al tempo successivo all’ordinazione.
Da qui l’importanza della formazione permanente[22]. In Italia sono sorte associazioni con lo scopo di offrire un aiuto per avviare un check up circa la salute dei preti e delle proprie diocesi. Una di esse è il Centro Studi Missione Emmaus, che ha come scopo di «affiancare e sostenere i responsabili di una Diocesi o Comunità Religiosa, senza sostituirsi ad essi, ma facilitando e sviluppando sinergie che valorizzino le risorse presenti»[23]. Una volta prese in considerazione le principali problematiche diocesane, o interdiocesane, si propone un iter scandito da tappe progressive.
Per esempio, un incontro annuale di alcuni giorni (pensato magari su 2 gruppi, in modo da consentire la sostituzione nelle Messe) in un posto bello e in una struttura gradevole potrebbe essere un buon inizio per riprendere il gusto dello stare insieme e di uno scambio più vero e fraterno. In tale contesto, presentare episodi della cronaca recente e commentarli con l’aiuto di persone competenti, capaci di offrire anche possibili aiuti per la cura personalis, costituisce già una maniera di confrontarsi con il problema e riprendere con calma il filo del proprio percorso di vita e di ministero. Quando queste proposte sono state attuate, i risultati sembrano essere stati incoraggianti[24].
Un altro aiuto da sempre raccomandato nella storia della Chiesa è l’accompagnamento spirituale, la rilettura della propria vita di fede compiuta con l’aiuto di una persona saggia e degna di fiducia. Nel momento della crisi questa figura è particolarmente preziosa: in tale occasione è infatti forte il rischio di identificare sé stessi e il ministero con il proprio problema, non riuscendo a notare altri aspetti, ugualmente presenti, che possono dare un peso differente e più realistico a quanto sta capitando. Senza spiritualizzare il problema, ma anche senza caricarlo di significati più grandi che attingono alla propria storia personale.
Rimane comunque indispensabile, alla luce di quanto detto sinora, che il tema della fragilità venga trattato in sede di formazione, e di formazione permanente, servendosi anche dell’apporto delle scienze umane, la cui importanza è stata più volte ribadita dal magistero, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II.
Non a caso la prima tentazione è proprio sulla fragilità, considerata una maledizione da eliminare e non il canale privilegiato della grazia di Dio. Henri Nouwen ha precisato questo punto fondamentale dell’esperienza biblica introducendo il termine di «guaritore ferito», di colui cioè che può guarire, come il crocifisso, attraverso le proprie ferite, che ha assunto senza negarle[25].
La fragilità accolta consente di vivere relazioni vere, all’insegna della misericordia e della compassione verso le fragilità altrui. Al contrario di una visione aulica di sacralità e di perfezione, è la fragilità a renderci simili a un Dio che è Padre amorevole, e che in Gesù ha voluto condividerla fino in fondo. È essa a rendere credibile il ministero sacerdotale.
Copyright © La Civiltà Cattolica 2023
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- pag. 535 - 548
- Anno 2023
- Volume II
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- . Francesco, Discorso alla Curia romana per gli auguri di Natale, 21 dicembre 2019. ↑
- . Si vedano le ricerche compiute da G. Gigerenzer, Perché l’intelligenza umana batte ancora gli algoritmi, Milano, Raffaello Cortina, 2023, 298-310. Cfr Sh. Turkle, Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri, Torino, Einaudi, 2019. ↑
- . Cfr F. Vêneto, «Suicidio di sacerdoti in Brasile: cosa sta accadendo?», in Aleteia (https://tinyurl.com/2dcjdw7k), 23 febbraio 2022. ↑
- . Ivi. Cfr «Religiosos estão entre os mais estressados», in Revista Veja, 4 giugno 2008. ↑
- . Cfr Conseil Permanent de la Conférence des Evêques de France, Étude sur la santé des prêtres (https://tinyurl.com/3b2a59ju). ↑
- . Cfr P. Barzon – M. Caltabiano – G. Ronzoni, «Il burnout tra i preti di una diocesi italiana», in Orientamenti pedagogici 53 (2006) 313-335; G. Ronzoni (ed.), Ardere, non bruciarsi. Studio sul «burnout» tra il clero diocesano, Padova, Emp, 2008; G. Mucci, «Il “burnout” tra i preti», in Civ. Catt. 2007 III 473-479. ↑
- . Christina Maslach e Michael Leiter, nella loro ricerca, hanno evidenziato sei aspetti che possono portare al burnout: 1) sovraccarico di lavoro; 2) mancanza di controllo su di esso; 3) insufficiente gratificazione; 4) venir meno del senso di appartenenza comunitario; 5) assenza di equità percepita nel proprio trattamento; 6) percezione di un contrasto tra i valori propri e quelli dell’organizzazione. Cfr C. Maslach – M. P. Leiter, The Truth About Burnout, San Francisco, CA, Jossey-Bass, 1997; Idd., Preventing burnout and building engagement: A complete program for organizational renewal, ivi, 2000; Idd., Banishing burnout: six strategies for improving your relationship with work, ivi, 2005. Per gli intervistati, le cause più importanti sembrerebbero essere soprattutto la quarta, la prima e la sesta. ↑
- . A. Castegnaro, «Fare il prete: disagio e trasformazione», in Il Regno – Attualità, n. 12, 2010, 416. ↑
- . Ivi, 417. Cfr Id. (ed.), Preti del nordest. Condizioni di vita e problemi di pastorale, Venezia, Marcianum, 2006, 33-49. ↑
- . Cfr N. Dal Molin, «Editoriale», in Presbyteri, n. 10, 2020, 723-729. Il numero è dedicato alla fraternità e amicizia nella vita del prete. ↑
- . «Ricordo la sorpresa dinanzi ai dati preoccupanti della ricerca fatta alcuni anni fa dalla FIAS (Federazione italiana assistenza sacerdoti) sulla solitudine del prete, su cui spesso s’intonano grandi (auto)lamentazioni. La sorpresa fu determinata non tanto dall’entità del fenomeno, più o meno prevedibile, quanto dall’evidenza, emersa da moltissime testimonianze, che la solitudine era in buona parte voluta e preferita alla compagnia di altri presbiteri» (A. Cencini, «La solitudine del prete oggi: verso l’isolamento o verso la comunione?», in AA.VV., Il prete e la solitudine: ne vogliamo uscire?, Atti del convegno Fias, Rocca di Papa, giugno 1989, 62). ↑
- . «Un aspetto che mi ha sempre colpito è che i preti, nei confronti dei propri confratelli, si pongono in modo fortemente giudicante. La situazione più diffusa è perciò la paura del giudizio. Parlare vuol dire essere giudicati. Quello che fai viene visto dagli altri. Introdurre cambiamenti nella propria vita, ad esempio al fine di stare meglio, è difficile proprio a causa di questa paura» (A. Castegnaro, «Fare il prete: disagio e trasformazione», cit., 417). ↑
- . «Quando un giovane entra in seminario finisce per uscire dal giro della parrocchia, dell’oratorio, dell’associazionismo, del volontariato e da tutto quell’orizzonte precedente che lo ha generato alla fede e educato al servizio […]. Il risultato è che il candidato viene affidato a dei “tecnici” che ne valuteranno l’idoneità in modo del tutto avulso dal contesto ecclesiale da cui quel giovane prete proviene e a cui è destinato» (E. Brancozzi, Rifare i preti. Come ripensare i Seminari, Bologna, EDB, 2021, 122). ↑
- . R. Cetera, «A colloquio con l’arcivescovo Erio Castellucci sul tema della formazione presbiterale. Rifare i preti?», in L’Osservatore Romano, 5 ottobre 2021. Questa visione è condivisa dallo psicologo William Pereira, autore del libro Sofrimento Psíquico dos Presbíteros («Sofferenza psichica dei presbiteri»). Per Pereira, «il grado di esigenza da parte della Chiesa è molto grande. Ci si aspetta che il sacerdote sia come minimo un modello di virtù e santità. Qualsiasi scivolone, per quanto piccolo, diventa un motivo di critica e di giudizio. Per paura, colpa o vergogna, molti preferiscono uccidersi a chiedere aiuto» (https://it.aleteia.org/2017/05/31/depressione-suicidio-colpiscono-sacerdoti). ↑
- . Cfr E. Parolari – A. Manenti, «Disagio dei preti e coscienza ecclesiale: è ora di voltare pagina», in Tredimensioni 13 (2016) 54-66; E. Brancozzi, Rifare i preti…, cit., 108-120. ↑
- . Cfr F. Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Milano, Feltrinelli, 2005, 158. Nota Anna Oliverio Ferraris: «I solitari rischiano di essere più vulnerabili [… ]. Uno stile iperprotettivo è in linea di massima poco favorevole alla resilienza perché non consente di misurarsi con le difficoltà e il dolore e di trovare autonomamente le soluzioni» (A. Oliverio Ferraris, «Resilienti. La forza è con loro», in Psicologia contemporanea, n. 180, nov.-dic. 2003, 6). Cfr G. Cucci, «Il capitale sociale. Una risorsa indispensabile per la qualità della vita», in Civ. Catt. 2019 I 417-430. ↑
- . Cfr E. Finger – R. Jungbluth – S. Rückert, «Culto aziendale», in Internazionale, 23 maggio 2014, 52-56. ↑
- . «Ogni seminarista […] è il protagonista della propria formazione ed è chiamato a un cammino di costante crescita nell’ambito umano, spirituale, intellettuale e pastorale, tenendo conto della propria storia personale e familiare» (Congregazione per il Clero, Il dono della vocazione presbiterale. Ratio Fundamentalis Institutionis Sacerdotalis, 8 dicembre 2016, nn. 53 e 130); «Il primo e principale responsabile della propria formazione permanente è il presbitero stesso» (ivi, n. 82; cfr Giovanni Paolo II, s., Esortazione apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis, 25 marzo 1992, n. 79). ↑
- . Cfr Conferenza Episcopale Italiana, 69a Assemblea generale (Roma 16-19 maggio 2016). Comunicato finale (https://tinyurl.com/493hpppk). ↑
- . Cfr Riconfigurazione-della-vita-comunitaria-del-Seminario.pdf ↑
- . Queste sono, ad esempio, alcune comunità di riferimento per ricevere aiuto: Apostolato Accademico Salvatoriano: presidenza.aas@apostolatosalvatoriano.it; Comunità Agape – Servizio Intercongregazionale: agape@monasteromdm.191.it; Fraternità San Francesco – Frati Minori: fra.alberto@alice.it; Congregazione di Gesù Sacerdote – Padri Venturini: pmventur@tin.it ↑
- . Cfr L. Bressan, «Seminaristi del nuovo millennio, preti per il nuovo millennio», in Credere oggi, n. 168, nov./dic. 2008; A. Cencini, La formazione permanente nella vita quotidiana, Bologna, EDB, 2017; D. Donei, «Il prete “esposto”. Riflessioni sulla formazione permanente del clero», in Tredimensioni 15 (2018) 76-86. ↑
- . «Il metodo Emmaus intende infatti suscitare un cambiamento paradigmatico più che programmatico: rinnovare a partire da un’esperienza di discernimento che nasce dentro la sperimentazione e la prassi per divenire esperienza ecclesiale di comunione e tradursi in uno slancio missionario generativo. Solo in questo modo è possibile mettere in atto processi di cambiamento profondi e creativi, e non limitarsi ad azioni funzionali, adattive, di breve respiro. Solo così è possibile ridefinire nuove mappe ed equipaggiamenti per orientare e realizzare l’azione pastorale oggi. Si propone: 1) Accompagnamento nella ridefinizione della curia e dei centri pastorali, interventi formativi per Uffici diocesani; 2) Consulenza a Vescovi, Vicari e Responsabili nel ridefinire orizzonti pastorali diocesani o linee di azione; 3) Formazione del clero e dei seminaristi; 4) Formazione dei formatori» (https://www.missioneemmaus.com). ↑
- . «È incredibile come la condivisione di ciò che è centrale nella nostra vita (dunque della fede e di Dio), cioè la narratio fidei, possa alzare tono e qualità delle nostre fraternità presbiterali; il raccontarci le nostre piccole storie di credenti ci fa riscoprire fratelli e apprezzare l’uno il cammino dell’altro. È quel che ci raccontano gruppi di sacerdoti che portano avanti in modo sistematico questa esperienza» (A. Cencini, La verità della vita. La formazione continua della mente credente, Bologna, EDB, 2008, 487 s). Cfr S. Guarinelli, «Racconto, relazione, rappresentazione», in Teologia 3 (2003) 335-368; D. Pavone, «Il “noi presbiterale” a servizio della Chiesa. Dinamiche di comunione e collaborazione tra preti», in La Rivista del Clero italiano 98 (2017) 696-716. ↑
- . Cfr H. Nouwen, Il guaritore ferito. Il ministero nella società contemporanea, Brescia, Queriniana, 2010. FONTE: https://www.laciviltacattolica.it/articolo/solitudine-e-disagio-del-prete-un-problema-strutturale/?utm_source=Newsletter+%22La+Civilt%C3%A0+Cattolica%22&utm_campaign=0b94b329d7-1850_CAMPAIGN_9_2023&utm_medium=email&utm_term=0_9d2f468610-0b94b329d7-85986793&ct=t(1850_CAMPAIGN_9_2023)&mc_cid=0b94b329d7&mc_eid=2fdb252660
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